Disforia di genere, Chianura: Basta segreti e vergogna

La disforia di genere si manifesta quando un bambino o una bambina sentono che il loro sesso biologico non corrisponde alla loro identità psicologica. Una difficoltà che comporta inevitabili conseguenze socio-relazionali.

Il Servizio per l’Adeguamento tra l’Identità Psichica e l’Identità Fisica-SAIFIP, centro di intervento clinico e di ricerca sulla Disforia di Genere, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, offre un servizio interdisciplinare che pone attenzione agli aspetti psicologici, medico-chirurgici e socio-legali implicati nel processo di adeguamento tra identità fisica e identità psichica. Istituito nel 1992 come Servizio interdisciplinare dedicato alle persone che intendono intraprendere un percorso di adeguamento e chiedere, eventualmente, la “Riassegnazione Chirurgica di Sesso-RCS” secondo la Legge n.164/1982 e la Legge della Regione Lazio n.59/1990. Il Servizio organizza ed offre anche interventi di formazione, informazione e consulenza agli operatori che lavorano in ambito socio-sanitario e pedagogico-educativo. Luca Chianura, Direttore Istituto Metafora, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Relazionale e Responsabile di Psicologia Clinica del SAIFIP, si sofferma sull’area minori.

Direttore, da quanto tempo operate al fianco dei minori che manifestano problemi di disforia di genere?

Quest’area del SAIFIP nasce nel 2005 in seguito alle molteplici richieste d’aiuto da parte di famiglie con minori con varianza di genere e disforia di genere. E’ stato necessario e utile confrontarsi con le realtà nazionali e internazionali già esistenti, in modo da strutturare un protocollo di intervento clinico specifico per i minori. E’ stata determinante nella strutturazione del servizio per i minori la presenza, per diversi anni come supervisore clinico dell’equipe, di Domenico Di Ceglie, che ha fondato e diretto per anni il “Gender Identity Development Service” presso la Tavistock and Portman Clinic di Londra, uno dei più importanti centri a livello internazionale sulla varianza di genere in età evolutiva.

Com’è cambiato nel corso degli anni l’approccio a questo tipo di disturbo?

C’è sicuramente una maggiore visibilità mediatica di questo fenomeno, oltre a una maggiore conoscenza della possibilità di una presa in carico precoce anche di tipo medico-psicologico. È importante sottolineare che avere fantasie e comportamenti legati al sesso opposto è un fenomeno alquanto comune nella prima e seconda infanzia. Comportamenti atipici, relativi all’identità di genere, possono essere già evidenti intorno ai 2-4 anni, anche se solitamente i bambini giungono all’osservazione clinica in concomitanza con l’inizio della scolarizzazione, su diretta segnalazione degli insegnanti oppure perché i genitori cominciano ad allarmarsi e preoccuparsi del fatto che, quella che essi ipotizzavano come una “fase passeggera”, non accenni a terminare.

Che succede quando il fenomeno non rientra naturalmente?

Nella maggioranza dei casi i vissuti e i comportamenti cross-gender non persistono nell’adolescenza. Se però persiste in pubertà, raramente desiste. Per tale motivo, raccomandazioni internazionali supportano la necessità di un intervento endocrinologico in casi valutati e selezionati attentamente. Nell’ultimo ventennio ritardare la pubertà negli adolescenti con DG ha rappresentato un trattamento in continua diffusione in molti Paesi. Il modello è stato sviluppato in Olanda e i protocolli sono stati introdotti presso la Clinica di Identità di Genere di Amsterdam; in seguito, si sono diffusi in altri Paesi in Europa e in America del Nord.

Perché si è pensato di ritardare la pubertà?

Il ritardo indotto della pubertà ha lo scopo di dare il tempo e lo spazio per riflettere sul bisogno di riassegnazione del genere, evitando l’intensificarsi delle sofferenze correlate ai cambiamenti fisici di questa fase. Si favorisce una riduzione significativa dei problemi comportamentali ed emotivi, di quadri depressivi e di rischio suicidario, oltre che un miglioramento complessivo della qualità di vita e del funzionamento psicologico generale.

Qual è la procedura seguita da Saifip per affrontare questi casi?

Il primo contatto avviene attraverso lo Sportello Informativo. Dopo la compilazione della “Scheda di primo contatto”, comprensiva di alcune informazioni riguardanti i dati anagrafici del minore e dei genitori, si fissa un primo appuntamento che coinvolge diversi membri della famiglia. Nel caso di bambini inferiori ai 12 anni, si fissano degli incontri con la coppia genitoriale e, solamente, nel caso si ritenga necessario, si coinvolge anche il minore negli incontri. Se la richiesta viene effettuata da parte di genitori di adolescenti tra 12 e 18 anni, si fissa un primo incontro con l’intero nucleo familiare, a cui seguono setting combinati tra colloqui individuali con il singolo utente e colloqui familiari alla presenza di tutti i componenti, compresi eventuali fratelli e sorelle.

Come si procede dopo il primo incontro?

Il servizio prevede una fase di valutazione e di diagnosi integrata (medico-endocrinologica, neuropsichiatrica e psicologica), individualizzata secondo le necessità, che si differenzia sulla base dell’età del minore. Il percorso psicodiagnostico per minori fino ai 12 anni può avvalersi di colloqui con i genitori (alla presenza o meno del bambino), colloqui con il minore (osservazione gioco libero e somministrazione test psicologici) ed eventuali incontri effettuati nel contesto scolastico di appartenenza. Concluso tale percorso, vengono fissati degli incontri, per la restituzione ai genitori e al minore di quanto emerso nei colloqui psicologici e nei test somministrati. Il percorso psicodiagnostico per minori dai 13 ai 18 anni può avvalersi di colloqui familiari, con i soli genitori, colloqui con l’adolescente ed eventuali incontri effettuati nel contesto scolastico di appartenenza. Vengono inoltre prescritti accertamenti per la diagnosi medica.

Alla fine di questo percorso si arriva alla diagnosi?

Sì, ai genitori e al minore viene consegnata una relazione risultante dall’elaborazione dei dati derivanti dai colloqui psicologici, dai test psicodiagnostici e dagli accertamenti medici. La relazione si conclude con la presenza o meno della diagnosi di Disforia di Genere, secondo i criteri adottati dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Anche in questo caso, si costruisce con il minore e con la sua famiglia un percorso individualizzato per il singolo e per la famiglia.

Con quali obiettivi?

Sicuramente attenuare gli attuali disagi e le difficoltà affettive e relazionali del minore, evitando il cronicizzarsi di situazioni di evitamento ed ostracismo sociale, soprattutto nel rapporto con gli altri. Così come è fondamentale chiarire e sostenere il processo di consapevolezza dell’identità personale, lasciando inizialmente sullo sfondo la problematica di genere, e tendere a raggiungere un migliore equilibrio interiore ed esteriore, riducendo il carico di sofferenza soggettiva. I minori vanno anche sostenuti nel superare i sensi di colpa derivanti dal giudizio esplicito o implicito della famiglia e del gruppo sociale.

Ci sono da affrontare e azzerare anche sentimenti di vergogna?

Certo, lavoriamo anche per interrompere il circuito della “segretezza”, attraverso il coinvolgimento dell’intero nucleo familiare. In questo senso è importante anche attivare le curiosità e l’interesse esplorando i blocchi che li ostacolano. Il bambino tende infatti a introiettare un’esperienza della curiosità come qualcosa di “proibito”, con conseguente alterazione dei processi di apprendimento. L’esperienza clinica, svolta in questi anni presso il Servizio, sembra riportare che, dopo un primo periodo di grande difficoltà e di profondo shock emotivo, i genitori si mostrano con il tempo sempre più aperti e accoglienti rispetto al disagio del proprio figlio, con un conseguente miglioramento della qualità delle relazioni familiari tra tutti i membri, e sempre più disponibili a raccontare la condizione del proprio figlio anche nei contesti formali e informali in cui sono coinvolti.

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