Dal Convegno Adolescenza e identità Negate del 18 Maggio 2019 – Intervista al Dott.Giovanni Dessena

Per capire perchè gli adolescenti di oggi si confrontino con un processo di identità negato bisogna andare a posizionare il giovane all’interno del suo ambito naturale di appartenenza che è la famiglia e capire quali caratteristiche presenti la famiglia oggi e come si sia trasformata rispetto al suo mandato di crescita ed educazione dei figli . Da un punto di vista sociologico sembra esserci una correlazione tra le fragilità sociali e la percentuale sempre più alta di adolescenti che non riescono ad accedere ad un processo di individuazione.

Come esperti di adolescenza e di crisi dell’adolescenza è necessario poter  focalizzare dei quesiti che ci possano guidare nell’analisi del loro contesto di appartenenza e nella definizione dei possibili interventi:

Come possono dei genitori che si trovano a confrontarsi con una difficoltà oggettiva nel costruire la propria identità sociale, sostenere i figli adolescenti nel fare altrettanto?

Il concetto di emancipazione dell’adolescente come siamo abituati a pensarlo da sempre, ha subito anch’ esso delle trasformazioni di cui dobbiamo tener conto?

Un adolescente si può emancipare poggiandosi sulle stesse strategie che la letteratura ritiene fondamentali per la strutturazione di un’autonomia psichica e sociale? Oppure dobbiamo considerare che la società e le famiglie in termini allargati stiano vivendo la stessa impossibilità emancipativa che sta vivendo l’adolescente ?

Noi operatori del sociale nel costruire nuovi paradigmi di valutazione e intervento dobbiamo avere nella mente tutti questi quesiti e paradossi che vive l’adolescente e il suo ambiente allargato e che la fragilità dell’adolescente oggi è speculare al disagio e alla ricerca di nuovi equilibri a cui deve rispondere la famiglia e la società stessa

La famiglia, insieme al concetto di identità, è una delle preoccupazioni della nostra epoca e da sempre le istituzioni sociali  propongono la famiglia come  il problema e la sua fragilità come angoscia collettiva. Ad esempio si parla spesso del padre che manca alla nostra società e allo stesso modo si ragiona sulle riorganizzazioni dei ruoli rispetto a quello materno che è meno presente sull’educazione dei figli e più presente nella società.

La famiglia pertanto viene intesa in continua trasformazione peggiorativa e viene letta come la causa della crisi del processo di individuazione dell’adolescente.

 

La famiglia va curata o è un ambito con cui dialogare per supportare il processo di individuazione?

Mentre è andato aumentando il discorso sulla famiglia non altrettanto si è ampliato il discorso con le famiglie.

Dagli anni 60 l’analisi sociologica e familiare descrive un mutamento verso l’apertura di uno spazio dialettico tra famiglia e società. Non sembra però che la famiglia sia ancora considerata come polo dialettico ma come oggetto su cui intervenire dall’esterno, non c’è pertanto un discorso con la famiglia ma un discorso sulla famiglia, generando in questo modo un paradosso in termini di sociologici che si traspone nell’intervento riabilitativo socio sanitario dell’adolescente.

 

Quali possono essere le cause di questo paradosso?

Le cause potrebbero essere tante ma proporrei di “stressare” nel senso di mettere sotto sforzo il concetto di identità.

Siamo abituati ad una sorta di automatismo concettuale: l’identità è una proprietà dell’individuo e l’individuo è considerato in grado di basare su di sè l’acquisizione dell’equilibrio stabile della sua personalità al mutare dei contesti e delle appartenenze sociali. Questo rimanda all’idea che l’individuo abbia un equilibrio indipendente dal contesto che muta.

Questa concezione che ha  fondato la modernizzazione del mondo, è entrata in crisi dopo la seconda guerra mondiale determinando uno spostamento dell’attenzione, dall’individuo come misura di tutte le cose ad una nuova concezione dell’uomo occidentale come molteplicità di rappresentazioni del sé, come insieme delle sue appartenenze.

Questa definizione smaschera un sentimento poco accettabile: la perdita di referenzialità univoche e unificanti che davano un senso di sicurezza.

In questo periodo di trasformazione storica ci troviamo su un territorio di confine caratterizzato da angoscia,  smarrimento ma anche dalla creatività che queste trasformazioni hanno  sempre comportato nel cammino dell’essere umano.

Tale cambiamento porta alla modifica delle relazioni reciproche tra le organizzazioni istituzionali presenti in una comunità fino allo stravolgimento dei patti di alleanza che avevano permesso la fondazione e la vita della comunità stessa:

I ruoli erano chiari e c’era un riconoscimento valoriale reciproco dei ruoli stessi: ogni agenzia sociale ed educativa, compresa la famiglia, aveva compiti riconosciuti  come utili nell’equilibrio allargato della comunità.

In questa trasformazione vengono meno i patti di alleanza tra agenzie, non si riconoscono reciprocamente i ruoli e viene meno l’interdipendenza delle agenzie educative e sociali che vivono reciprocamente un senso di sfiducia.

Così si esprime Lars Dencik:

le affiliazioni sociali, più o meno ereditate, che vengono tradizionalmente attribuite agli individui come definizione di identità-razza, genere, paese o luogo di nascita, famiglia e classe sociale- stanno ora diventando meno importanti, diluite e alterate, nei paesi tecnologicamente ed economicamente più avanzati. Al tempo stesso si assiste a un forte desiderio e a tentativi di trovare o fondare nuovi gruppi che possano dare ai membri un senso di appartenenza e facilitare la fabbricazione di un’identità. Ne deriva un crescente sentimento di insicurezza.

Fino a 10 anni fa l’identità  era appannaggio di riflessioni filosofiche  e psicoanalitiche mentre oggi sembra essere diventata un argomento di attualità. Seguendo l’affermazione di Martin Heidegger si potrebbe facilmente giungere ad una conclusione: ci si accorge delle cose, ponendole sotto la lente della contemplazione, quando esse svaniscono, vanno in rovina, iniziano a comportarsi stranamente o ti deludono in qualche altro modo…

In questo mutamento le difficoltà  sono da attribuire all’Altro che viene così posizionato nel luogo della colpa, della fragilità e della mancanza. Questa dinamica porta  a strutturare il proprio comprendere ed agire secondo sentimenti, giudizi, paure ed eventi basati su fantasmatiche categorie responsabili del disagio collettivo.

Se consideriamo il problema come esclusiva pertinenza dell’Altro, questa semplificazione estrema non può che generare sentimenti diffusi di persecutorietà e deresponsabilizzazione.

Oggi la trasmissione dei patrimoni culturali dovrebbe essere assunta dalle agenzie del sociale che fin dall’asilo nido sono portatrici di una cultura altra da quella delle generazioni familiari. Oggi, scrivono alcuni autori, la società complessa tende a generare un codice simbolico per il quale ogni sistema sociale deve produrre da sé le proprie strutture. Così anche per le famiglie si tende a perdere le tradizioni culturali, ora  la famiglia deve essere rifondata ad ogni generazione. Si organizza quindi una differenziazione ben precisa. I contenuti formativi ed informativi passano da agenzie del sociale mentre la famiglia si caratterizza come luogo degli affetti e dei legami con il compito di essere l’unico arbitro  di un numeroso crocevia di mediazioni .

Scrive Corrado Pontalti : “Perché nessun essere umano può essere espropriato della propria storia, né accusato per la storia delle generazioni precedenti, la famiglia, è il luogo di una mediazione ultima, forse la più essenziale: media all’interno di ognuno di noi le due radici della nostra identità , media le radici delle nostre due appartenenze: l’appartenenza al mondo dei legami degli affetti, l’appartenenza al mondo del sociale civile e politico.

La funzione di mediazione, di cui ha ricevuto mandato la famiglia,  rappresenta l’azione degli affetti e della ricerca di equilibrio. Tuttavia nella sua solitudine tale funzione diventa assenza, attenuazione, terrore di conflitti, ma senza conflitto non vi è dialettica nel confronto e quindi non vi è mediazione ma continua disperata ricerca di compromessi. La mediazione genera conoscenza, acquisizioni di competenza, senso di efficacia,  mentre il compromesso ne ostacola completamente il loro divenire immergendo la famiglia in una paralisi temporale.  Questo è il senso della fragilità spesso impotente percepita da tutti membri della famiglia.

 

Fino a  50 anni fa tra i vari Altri c’erano regole di relazione ben precise sancite da costumi e leggi, per cui il singolo individuo sapeva esattamente qual era il suo posto e sapeva che quel posto garantiva identità psichica e sociale. Oggi ognuno di noi attraversa ed è attraversato da variegate e mutevoli appartenenze proprio ai tanti Altri che in più occasioni definisce come estranei da sè e come persecutori.

Nessuna appartenenza oggi può garantire un’identità. Il sentimento di identità è quindi  fondato sulla capacità di essere consapevoli della necessaria transitabilità tra molteplici appartenenze. Gli individui oggi sono chiamati a tollerare una continua incertezza al bisogno di appartenenza.

Perché tutto ciò sia possibile, è necessario sviluppare la  competenza a rendere conoscibile, comprensibile, naturale e vicino qualcosa o qualcuno.

Tutta la società è chiamata a rendere possibile, la comprensione dell’altro , superando il senso di estraneità  di altre appartenenze senza rifugiarsi in una massificazione ideologica, permettendo in questo modo di creare dei ponti.

Il concetto di transitabilità rappresenta il precursore fondante lo spazio tra i vari Altri, dentro il quale riconoscere le parti di sè e attraverso il quale superare l’ostilità verso ciò che sentiamo ignoto o Altro da noi per costituire un nuovo senso di identità.

L’intento deve essere quello di cercare di fondare nuove logiche di appartenenza estremamente più mobili e creative.

L’esperienza clinica fa emergere come oggi il problema psicologico più diffuso sia la dipendenza dai contesti, dipendenza che significa senso profondo di smarrimento e blocco evolutivo come reazione al mutare della territorialità e delle appartenenze.

La nostra società organizza relazioni sulla paura e quindi sulla continua ricerca di compromessi di equilibrio fittizio, pertanto non ha senso attribuire alla famiglia il peso e la colpa di qualcosa che attiene a tutta l’organizzazione psichica ed operazionale della comunità.

 

Novelletto propose una riflessione sul funzionamento del gruppo dei ragazzi e su quello degli operatori: “Esiste, affermò Novelletto, un modo civile e costruttivo di crescita nel separarsi. Questa separazione la chiamiamo emancipazione perché non c’è più la mano del genitore che ti tiene: ti stacchi e vai per la tua strada. Questa è una separazione buona, evolutiva. Ma la ‘scissione’ è un altro tipo di separazione.

(…). Ricorda il colpo di stato, in cui una minoranza pretende di ribaltare l’equilibrio e la gerarchia che fino a quel momento vigeva nel gruppo, di assumerne la conduzione, il comando, il potere. (Novelletto, 2003, pag. 106).

 

ALLA FINE DI QUESTE CONSIDERAZIONI SULLA FAMIGLIA IN CHE MODO SI PUO’ INTERVENIRE?

Per concludere, in tutto questo scenario di cambiamento non si può rimanere incastrati nel considerare un lavoro “su” la famiglia ma come educatori del sociale dobbiamo iniziare ad interrogarci per lavorare realmente “con” le famiglie  tollerando una dimensione di incertezza che coinvolge anche l’intero sistema di cura. Consapevoli dei paradossi descritti e della crisi generale dei valori sociali, per lavorare con l’adolescenza dobbiamo confrontarci con la consapevolezza di essere parte di questa trasformazione che coinvolge i nostri stessi paradigmi di lettura del disagio e i paradigmi della naturale maturazione di esseri umani.

 

 

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